Può capitare di
restare imbambolati a osservare una scena rapiti dalle dinamiche tra due
protagonisti. Catturati dai movimenti, dai cenni, dagli sguardi, dal significato profondo di
cose non dette.
Lo sfondo è
metropolitano, c'è caos: Il solito rombare di auto e mezzi pubblici; il via vai
di gente distratta; una coppia di fidanzatini che si baciano sulla panchina
nella piazzetta di fronte, zaini a terra in un orario che fa capire che oggi si
marina la scuola; il matto che parla da solo e inveisce contro i passanti.
Può capitare.
Sì.
È come se mi
trovassi dall'alto di una posizione privilegiata, da un attico, sono distaccato
ma non assente.
Non è la giornata
che tutti sperano di affrontare, il cielo è grigio, c'è vento, ci sono a terra le tracce della pioggia notturna, mozziconi e
cartoni bagnati ammiccano sfrontati ricordando a tutti che la città è capace
di sporcare anche le cose preziose e pure cadute dal cielo.
Vengo urtato da
una signora carica di borse della spesa, non si scusa nemmeno. La perdono, in
fondo sono io a essere in mezzo ai piedi.
Mentre la osservo attraversare la
strada borbottando la riconosco, è la
signora Vicenta. Anni e anni in Italia per fare la donna delle pulizie nelle
case di molti abitanti del mio quartiere. Dall'alba al tramonto, tutti i giorni
della settimana. Una donna sfatta e sfiancata, sempre sorridente ma con gli
occhi tristi.
Ha fatto arrivare dall'Ecuador suo figlio per permettergli di
studiare. Tutti sanno che il ragazzo a scuola ci va poco perché preferisce
fumare eroina. L'ho sorpreso anche io nel mio portone mentre era indaffarato
con il suo bel pezzo di carta stagnola, cannuccia tra le labbra intanto che il suo
amico scaldava tutto con l'accendino da quattro soldi. Avrei lasciato perdere
se solo non mi avesse guardato con aria di sfida, come se stesse facendo la
cosa più normale del mondo e io fossi un idiota che non capisce. Quel giorno
feci saltare con una mano tutto l'ambaradam, lo presi per un orecchio e lo
trascinai fuori dall'androne del mio palazzo mentre l'amichetto in fuga mi
insultava in spagnolo e il figlio della signora Vicenta mi guardava impaurito gemendo dal dolore. Non ero arrabbiato, soltanto triste. Ricordavo altre
situazioni simili, momenti così vecchi da risalire a prima della nascita dello
stupido che avevo tra le mani. Come un cretino facevo fatica a respingere il
groppo in gola. Più il turbamento aumentava e più strizzavo l'orecchio di quel
poveretto.
Facevo pagare a lui le colpe di un altro stupido che da anni è andato
a far da concime per i vermi. Anzi, oramai sarà polvere. Forse è per questo che
ne sento ancora la presenza. La polvere si infila dovunque e non va mai via del
tutto.
Il
clacson tonante di un autobus mi riscuote da quel ricordo. Torno a concentrarmi
sulla scena che stavo osservando. Mi accendo una sigaretta e, come se mi
trovassi a una festa invece che in mezzo alla strada, mi appoggio comodamente al
palo del semaforo. Con la coda dell'occhio noto il barbaglio dell'acqua piovana
sulle strisce pedonali bianche e lucide. Chissà come mai quelle gocce sfavillanti
mi rincuorano e mi mettono allegria.
Guardo verso
l'improbabile coppia senza riuscire a reprimere un sorriso ebete che mi si
stampa sulla faccia.
Si stanno
avvicinando ma ancora non mi hanno visto.
Mia madre e mio
figlio.
Mano nella mano
chiacchierano, petulanti, complici. La mia vecchia ogni tanto si china verso il
bimbo per ascoltarlo meglio. No, non è esatto, è come se gli andasse incontro
con tutta se stessa, anima e corpo. Sono geloso, con me è stata una madre dura,
severa, distaccata, sempre triste o arrabbiata. Sempre distratta dai problemi
della vita. Sola.
Mio figlio è
effervescente, come al solito. Bellissimo. Vitale. Vibrante. Risplendente.
Accoglie con soddisfazione le espressioni di stupore e meraviglia della nonna.
Chissà quali avventure le starà raccontando. Racconti minuti, gesti innocenti,
gioia piena e inconsapevole. O forse no, forse è proprio lui ad aver capito
tutto, ciò che conta davvero. Gli adulti hanno poca memoria, sono troppo
impegnati per dedicarsi alla vita. Esistono, indaffarati, distratti, pieni di
progetti che allontanano dalla vera essenza dell'io più profondo. I bambini
amano, gioiscono, soffrono, direttamente dall'anima che ancora non si è
costruita barriere.
Mi vedono.
Mia madre mi
guarda e ricomincia la recita, lo sguardo è di colei che vuole farmi capire
quanto è vecchia e stanca, si incupisce.
Bugiarda.
Quando il nipote
le tira la mano per richiamare la sua attenzione, le torna lo sfavillio negli
occhi.
Mio figlio mi
chiama festante. Trascina la nonna e insieme caracollano verso di me.
In quel gesto mi
ritrovo a essere più figlio di quanto non lo sia mai stato da bambino. Più
padre che mai.
Mentre Il bambino
mi abbraccia le gambe festoso, bacio sulla guancia mia madre e la ringrazio.
La città è sempre la stessa, bigia, ventosa,
rumorosa, sporca. Soltanto noi siamo di volta in volta diversi, alle volte
migliori, più spesso semplicemente consapevoli.
Alle volte mi
pongo delle domande stupide, non sono legate a quesiti su quanto posso essere
bravo nel mio lavoro, su quante capacità relazionali possiedo, su quanti
progetti sono stato in grado di portare a termine, se in me è ancora vibrante
la giusta determinazione per rincorrere il successo.
Soltanto domande
stupide.
Per fortuna
accade raramente.
Mi ricordo delle
cose che mi diceva la mia nonna, di come lei, molto semplicemente, si augurava
soltanto che io diventassi un brav'uomo, molto banalmente desiderava questo.
Non le importava cosa avrei fatto nella vita, sperava di crescere un nipote
destinato a essere una brava persona. Tutto lì. Questo perché lei sapeva che la
vita è una gran bastarda, io ancora dovevo scoprirlo del tutto.
Ecco quindi
affiorare le domande sciocche.
Ma io sono un
brav'uomo? Sono degno del dolore di chi mi ha messo al mondo? Sono degno di
crescere e aiutare un essere che da me si aspetta tutto, e che guarda a me come
l'unico in grado di permettergli di camminare da solo nel mondo, forte e
indipendente?
Quesiti stupidi
come dicevo.
Adesso però, non
ho tempo per darmi quel tipo di risposte, devo rispondere a domande ancora più
fondamentali e pressanti, mio figlio mi sta chiedendo se ho voglia di andare a
casa con lui a giocare con i lego. Io odio i lego. Mi farò forza e cercherò di
trovare l'entusiasmo per mettermi a costruire casette.
Ecco, ci
pensa un bambino di cinque anni a darmi le risposte giuste. Che cretino che
sono.
© 2017 di Massimiliano Riccardi