scrivere per vivere vivere per scrivere

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La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati. (René Descartes) ********************************************************************************************** USQUE AD FINEM

domenica 23 ottobre 2016

Insieme raccontiamo 14 - La via del sogno


Anche questa volta partecipo con gioia al gioco di Patricia Moll: insieme raccontiamo appuntamento 14. Come al solito lei lancia un incipit e noi proseguiamo con un finale.  QUI il link che rimanda al post originale.
Questa volta ho dovuto tenere a freno la fantasia, ho preso la deriva verso lidi che si trovano al confine tra sogno e realtà. Spero che l'esperimento possa risultare gradevole.



L'incipit di Patricia
Seduta ai margini del bosco sotto alla vecchia quercia spoglia rimuginava. Un peso le gravava sulla coscienza. Forse era giunta l’ora di liberarsene ma con chi parlarne? A chi rivolgersi? Chi avrebbe capito?
D’un tratto il tappeto di foglie ingiallite dall’autunno scricchiolò vicino a lei. Si voltò.

Il mio finale
Era tornata a casa sua, ma non aveva pace. Fluttuante e impalpabile. Lo spirito tormentato di suo figlio impediva un vero ricongiungimento. L'accettazione. 
Di nuovo lo scricchiolio di foglie. La via dei canti si fece luce, il serpente arcobaleno apparve immenso. Era stato chiamato, invocato da quell'anima dolente in cerca di consolazione. Occhieggiando e muovendo il capo invita la donna a proseguire il viaggio. Kanmare, che attraversa le acque, viaggia in terre lontane, unisce uomo a uomo attraverso i sogni, ingoia i malvagi, canta di genti e civiltà perdute. I sogni che preesistono e persistono. L'essere umano che si fa terra, roccia, corso d'acqua, vento, pioggia, pozza, albero.
Arcobaleno.
Vita eterna.
Tempo circolare.

1980
Il bambino si sente precipitare, la caduta gli mozza il fiato. Ha paura. Vorrebbe svegliarsi. Sogna. È tutto così reale. Una mano lo afferra. Salda. Apre gli occhi e vede sua madre. Non ode alcun suono ma vede. Percepisce il dolore di lei, il senso di colpa per averlo lasciato solo. Lo chiama. Senza parole. Solo alito di vento, colori. Chiarissimi.
Lui sta sognando, lei sta sognando. Sogno nel sogno.
Visioni.
Riconosce il luogo dove giace.
Può ritrovarla.
Finalmente pace.
Placare il suo spirito inquieto.
Apre gli occhi. Ansimante si guarda intorno. Ha immaginato di essere piccolo, un bimbo. Solo i fanciulli possono dar corpo ai sogni. 
Aveva lasciato gli Stati Uniti da circa un mese, la sua ossessione lo aveva portato sino in Australia. Era uno scienziato, ma questa volta si era affidato a ben altro.
Il suono del Didgeridoo è ossessivo, ripetitivo, modulato, vibrante. Ipnotico. Gli aborigeni che lo ospitano sorridono. Sanno. Anche loro hanno sognato.
L'uomo ha visto. Non ha nemmeno bisogno di cercare il punto sulla mappa. Sa esattamente dove andare per ritrovare il corpo di sua madre scomparsa durante una spedizione naturalistica trent'anni prima nei territori del nord. Uluru, "il grande masso" lo aspetta, il luogo dove il tempo non è tempo, dove la via del sogno è eternità, dove il passato e il presente si fondono.


lunedì 10 ottobre 2016

Di scrittura, giudizi e altre facezie




Qualche giorno fa su blog "Appunti a margine" di Chiara Solerio è uscito un post molto interessante dal titolo Il rapporto tra autore e personaggi - la sospensione del giudizio. Proprio perché trattava una tematica che mi interessa molto ho deciso di intervenire con un commento. Come spesso capita al sottoscritto è venuto fuori un vero e proprio torrente di parole che ha obbligato blogspot a difendersi rifiutando l'inserimento se non a costo di frammentarlo in almeno tre parti. Naturalmente ho optato per la soluzione più divertente per me: ne ho ricavato un vero e proprio post.
L'articolo di Chiara partiva da un assunto ben preciso, a me ha fornito il destro per ulteriori osservazioni legate anche al mio vissuto quotidiano. Ovviamente si tratta di considerazioni personali e come tali del tutto opinabili. Qui sotto riporto quello che avrebbe dovuto essere il mio commento.

Quello della sospensione del giudizio è un argomento non da poco. Attiene  alle relazioni umane come alla scrittura. Nei primissimi anni 90' incominciavo gli studi per poter svolgere la professione che ancora oggi mi permette di vivere, appresi un concetto che sino ad allora era soltanto una parola come tante: empatia.
Termine abusato, usato troppo spesso a sproposito, per mille motivi contraddetto dagli stessi atteggiamenti di coloro che se ne fanno promotori e fautori.
Ovvio che nel mio campo l'empatia deve avere necessariamente un riscontro pratico, non può essere soltanto un concetto acquisito o una banale nozione. 
Per rendere più snello il ragionamento, e per non risultare banalmente didascalico, possiamo dire che l'empatia è quello stato che ti permette di ascoltare il tuo interlocutore, percependone le emozioni, i drammi o le gioie, come se fossero le tue. Bada bene, sottolineo il "come se". Fondamentale. Difficile.  Vale anche per i personaggi  di un romanzo, a meno che non si desideri dar voce a un'evidente presa di posizione. 

Dunque, dicevamo empatia, ascoltare le emozioni e i sentimenti "dell'altro da me" senza che diventino le tue, percepire il dolore senza soffrirne a tua volta, ascoltare le paure dell'altro senza provarne tu stesso.
Impresa titanica ti garantisco, nei fatti è un processo molto difficoltoso, la realtà ha talmente tante variabili che è spesso difficile applicare le teorie sino al giorno prima solo lette e studiate.
L'empatia come confine fondamentale tra la simpatia e l'antipatia, anzi, la totale esclusione di ogni attitudine affettiva personale, banalizzo ma è per far capire. Ascoltare l'altro astenendosi dal giudizio, entrare nella sua visione senza esserne coinvolto. Una sorta di ascolto non valutativo e giudicante ma comprensivo nel senso più puro del termine.
Immagina l'approccio terapeutico di un caso limite: io ho bisogno di raccogliere più informazioni possibili su di un paziente che ha una formazione culturale totalmente diversa dalla mia, ad esempio un mussulmano praticante, con abitudini alimentari diverse, un concetto di società agli antipodi con il mio, a quel punto? Come posso ascoltare quello che ha da dirmi senza essere preda del mio sentire? Senza essere vittima del mio giudizio o pregiudizio? Posso solo ascoltare dimenticando chi sono senza però annullarmi, ascoltare il suo disagio senza provarlo io stesso, a quel punto cercando di instaurare un processo empatico, posso pianificare tutto quello che è il mio agire da professionista adattando le mie risorse alle necessità del paziente. Quindi via i "qui si fa così", via i "che cazzo di modo di vivere", via tutto ciò che non attiene alla pura e semplice comprensione dei bisogni dell'altro. Astensione dal giudizio. Lasciar emergere quello che il mio interlocutore ha in sé, cercando di percepire esattamente la sua emozione. 


La mia risposta deve essere influenzata da ciò che posso fare per favorire il suo "star bene" senza giudicare i perché e i per come il paziente è in quella condizione. L'empatia come comunicazione non violenta che utilizza un linguaggio assertivo. Vale per tutti i "tipi umani", ho parlato del mussulmano perché a quanto pare oggi tentano di farci credere che sia un problema, ma il discorso vale anche per il contadino dell'entroterra ligure.
Non sono un vero scrittore e non ho esperienza, ma nel mio romanzo ho cercato di delineare i personaggi sulla falsa riga di quello che mi capita di fare tutti i giorni, non sempre con successo.
Ho lasciato che fossero loro a parlare, ho ascoltato le loro emozioni e quello che avevano da dire. Ho cercato di evitare di mettere in ballo quella che è la mia personalissima idea in merito agli argomenti trattati. Ho pianificato un tipo di narrazione dove le emozioni positive o negative sono slegate dal narratore, ma sono riconducibili solo all'agire dei protagonisti. Ovviamente non avevo nessun intento se non quello di dar voce il più liberamente possibile a dei personaggi, nessun piano terapeutico, nessuno scopo pratico da raggiungere.
Ci sono riuscito? Non lo so. Però ci ho provato. Forse, e dico forse, il miglior modo di scrivere (parlo di romanzi) è proprio provare ad astenersi dal giudizio e lasciare ai protagonisti della storia l'arduo compito di esprimere giudizi. Come in tutte le cose si va avanti per tentativi, si prova e si sperimenta. 
Vecchierelli, canuti e fragili, ci ritroveremo a raccontarci se alla fine saremo riusciti nell'impresa. Sarebbe già un grande successo esserci riusciti nella vita di tutti i giorni.